Adriano Prosperi
Repubblica venerdi 25 novembre 2011
Il libro di Pesce è una ricerca filologica sulla lettura dei discorsi più celebri.
La rigenerazione prevedeva un rito di perdono e di risarcimento del male compiuto.
Chiedersi che cosa fosse Gesù di Nazareth non per noi ma per i suoi contemporanei: questo è ciò che distingue il libro di Mauro Pesce – Da Gesù al cristianesimo (Morcelliana) – dalla immensa foresta di libri su Gesù che cresce ogni giorno. E la via che l’autorevole storico del Cristianesimo dell’Università di Bologna ci propone è quella di una ricerca filologica e storica sui significati delle parole di Gesù in quei due primi secoli dell’era volgare in cui furono la fede di una setta ebraica: il che non può che risvegliare la curiosità di coloro che hanno incontrato quelle stesse parole trasformate in istituzioni e pratiche sociali nelle epoche successive delle società cristiane.
Vediamone almeno un esempio. Tutti sanno, o credono di sapere, che cosa significhi “rimettere un debito”. Specialmente di questi tempi, in cui alle tante forme storiche, morali e materiali, giuridiche e religiose del debito si è aggiunta quella che va sotto il nome di “debito sovrano”. Ma se oggi sono gli economisti a tenere il campo, non si può certo dimenticare che per millenni il loro posto è stato occupato da teologi, moralisti, predicatori, tutti impegnati a interpretare e tradurre nella vita quotidiana la frase del “Padre nostro” dove a Dio Padre si chiede di “rimettere a noi i nostri debiti, come anche noi abbiamo rimesso ai nostri debitori”(Matteo, 6,12). Da quella frase doveva dipartirsi il lunghissimo percorso che ha istituzionalizzato nelle società cristiane la divisione tra peccato morale e colpa giuridica e ha lungamente elaborato i significati del rito della confessione.
Ma che cosa cosa voleva dire esattamente Gesù di Nazareth? Per rispondere, osserva Pesce, bisogna partire dal dato di fatto che Gesù era un ebreo e non un “cristiano” e dunque comunicava coi suoi ascoltatori nel contesto della lingua e della tradizione ebraica. Se vogliamo intendere il significato letterale delle sue parole bisogna dunque mettere tra parentesi tutto ciò che ne è nato da quando sono state tradotte dall’aramaico nel greco dei Vangeli e poi in tutte le lingue del mondo. Si pensi anche solo ai sacramenti del battesimo e della confessione, al loro potere di “rimettere” i peccati. Tutto questo non c¿era ancora nell’orizzonte ebraico di Gesù. Qui il bisogno di cancellare o riparare le colpe aveva ricevuto la forma del giubileo.
Come lo descrive il capitolo 25 del Levitico, giubileo significava riconciliazione e ricomposizione dell’intera società, liberazione dai debiti, ritorno di ognuno nella propria famiglia e nei propri beni, sospensione delle preoccupazioni ordinarie – nutrirsi, vestirsi e così via. Lo si doveva annunciare nel “giorno dell’espiazione” perché la rigenerazione richiedeva un rito di perdono delle colpe involontarie e di risarcimento del male fatto. Come nota Pesce, il nesso tra espiazione e remissione è documentato nei manoscritti del Mar Morto: il che ci introduce nell’orizzonte mentale del giudaismo dei tempi di Gesù, quando col profeta Isaia conversione umana e perdono divino si erano da tempo legati all’idea di una restaurata giustizia e di una prospettiva di speranza escatologica.
La remissione generale del “Pater noster” si comprende dunque come passaggio di purificazione ed espiazione legato all’annunzio dell’imminente avvento del Regno di Dio: un Dio padre del suo popolo, simile a quei sovrani dell’Oriente antico che all’inizio del loro regno concedevano ai sudditi l’amnistia e sospendevano la legge ordinaria per restaurare una superiore giustizia.
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Adriano Prosperi
Repubblica venerdi 25 novembre 2011
Il libro di Pesce è una ricerca filologica sulla lettura dei discorsi più celebri.
La rigenerazione prevedeva un rito di perdono e di risarcimento del male compiuto.
Chiedersi che cosa fosse Gesù di Nazareth non per noi ma per i suoi contemporanei: questo è ciò che distingue il libro di Mauro Pesce – Da Gesù al cristianesimo (Morcelliana) – dalla immensa foresta di libri su Gesù che cresce ogni giorno. E la via che l’autorevole storico del Cristianesimo dell’Università di Bologna ci propone è quella di una ricerca filologica e storica sui significati delle parole di Gesù in quei due primi secoli dell’era volgare in cui furono la fede di una setta ebraica: il che non può che risvegliare la curiosità di coloro che hanno incontrato quelle stesse parole trasformate in istituzioni e pratiche sociali nelle epoche successive delle società cristiane.
Vediamone almeno un esempio. Tutti sanno, o credono di sapere, che cosa significhi “rimettere un debito”. Specialmente di questi tempi, in cui alle tante forme storiche, morali e materiali, giuridiche e religiose del debito si è aggiunta quella che va sotto il nome di “debito sovrano”. Ma se oggi sono gli economisti a tenere il campo, non si può certo dimenticare che per millenni il loro posto è stato occupato da teologi, moralisti, predicatori, tutti impegnati a interpretare e tradurre nella vita quotidiana la frase del “Padre nostro” dove a Dio Padre si chiede di “rimettere a noi i nostri debiti, come anche noi abbiamo rimesso ai nostri debitori”(Matteo, 6,12). Da quella frase doveva dipartirsi il lunghissimo percorso che ha istituzionalizzato nelle società cristiane la divisione tra peccato morale e colpa giuridica e ha lungamente elaborato i significati del rito della confessione.
Ma che cosa cosa voleva dire esattamente Gesù di Nazareth? Per rispondere, osserva Pesce, bisogna partire dal dato di fatto che Gesù era un ebreo e non un “cristiano” e dunque comunicava coi suoi ascoltatori nel contesto della lingua e della tradizione ebraica. Se vogliamo intendere il significato letterale delle sue parole bisogna dunque mettere tra parentesi tutto ciò che ne è nato da quando sono state tradotte dall’aramaico nel greco dei Vangeli e poi in tutte le lingue del mondo. Si pensi anche solo ai sacramenti del battesimo e della confessione, al loro potere di “rimettere” i peccati. Tutto questo non c¿era ancora nell’orizzonte ebraico di Gesù. Qui il bisogno di cancellare o riparare le colpe aveva ricevuto la forma del giubileo.
Come lo descrive il capitolo 25 del Levitico, giubileo significava riconciliazione e ricomposizione dell’intera società, liberazione dai debiti, ritorno di ognuno nella propria famiglia e nei propri beni, sospensione delle preoccupazioni ordinarie – nutrirsi, vestirsi e così via. Lo si doveva annunciare nel “giorno dell’espiazione” perché la rigenerazione richiedeva un rito di perdono delle colpe involontarie e di risarcimento del male fatto. Come nota Pesce, il nesso tra espiazione e remissione è documentato nei manoscritti del Mar Morto: il che ci introduce nell’orizzonte mentale del giudaismo dei tempi di Gesù, quando col profeta Isaia conversione umana e perdono divino si erano da tempo legati all’idea di una restaurata giustizia e di una prospettiva di speranza escatologica.
La remissione generale del “Pater noster” si comprende dunque come passaggio di purificazione ed espiazione legato all’annunzio dell’imminente avvento del Regno di Dio: un Dio padre del suo popolo, simile a quei sovrani dell’Oriente antico che all’inizio del loro regno concedevano ai sudditi l’amnistia e sospendevano la legge ordinaria per restaurare una superiore giustizia.