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Anna Maria Ortese stringe e racconta il Monaciello e un fantasma di Napoli

Due racconti al limite del fantastico, modellati da una delle più grandi penne del secolo scorso. Chi ha vissuto, anche solo per un attimo, la bellezza struggente del golfo che spunta languido nelle discese di Chiaia, negli squarci di Santa Lucia e nella luce accecante degli inserti decadenti al limitare di Piazza Plebiscito, può immaginare con quale dolce mestizia mi sia avvicinata nuovamente alla lettura dell’Ortese. Una riscoperta inizialmente non voluta, comparsa dinanzi ai miei occhi durante una ricerca destinata a ben altri lidi letterari, nella sezione di narrativa italiana della biblioteca Saint-Eloi, situata nel XII° arrondissement della città di Parigi. C’è un sapore dolce-amaro e singolare, nel riabbracciare quelli che furono i pilastri dell’educazione napoletana, un misto di amorevoli storielle e grandi classici della letteratura, costruito a suon di innumerevoli pomeriggi di lettura, immersi nella salda frescura del marmo del suolo delle grandi case affacciate sul golfo, nel piacevole abbraccio delle grandi mura della Biblioteca Nazionale e delle sale sotterranee dell’Università Federico II° di Napoli, come anche nei vecchi tram, sulle panchine decrepite e fiorite di muschio marino e nei treni sgangherati perennemente in ritardo, in un tempo guadagnato che solo in certi momenti riesco davvero ad apprezzare in tutto il suo portato. Come adesso, quando in un vagone di metropolitana così lontano, nel quale i sapori prepotenti del sud ritornano a farsi strada nella memoria, portando…

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