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Nel 19° anniversario della morte di Gianni Brera, poeta

Nel 1992 il 19 dicembre era un venerdì e pare che, contrariamente alle abitudini, nella pianura padana non ci fosse un filo di nebbia. Quella sera, sulla statale che porta da Codogno a Casalpusterlengo, tre amici tornavano da una cena al ristorante. Uno di loro molto probabilmente stava fumando un sigaro toscano quando un auto proveniente dalla corsia opposta invase la loro traiettoria cancellando d’un colpo le loro tre vite. Si chiamava Gianni Brera, era un giornalista sportivo, uno scrittore, un genio. Io ero piccolo allora, non potevo ancora ricordare né leggere i suoi articoli sulla Gazzetta, sul Giorno, sul Giornale o sulla Repubblica. Soltanto molti anni dopo ebbi la fortuna di leggerne alcuni, rimanendone folgorato. Ed è proprio per questo che oggi, a 19 anni dalla sua scomparsa, voglio ricordarlo come si deve. Per noi calciofili del nuovo millennio, pensare a un giornalista sportivo capace di fare acrobazie linguistiche incredibili (tanto fini e pazzesche da rendere legittimo, per molti, il paragone con Carlo Emilio Gadda) semplicemente parlando di calcio, ci sembra assolutamente impossibile. Eppure, gli articoli di Brera erano così. Sarebbe assolutamente inutile cercare di ricordare questo monumento al giornalismo facendo altra cosa che citarlo direttamente, ricopiando velocemente in calce qualche suo “verso” giornalistico. E questo faccio, invitandovi a seguirci dopo il salto per leggervi l’abbrivo di un suo articolo pubblicato sul Giorno. Era il 18 giugno 1970, era da poco finita una delle partite più epiche della nazionale italiana: Italia-Germania 4-3. “Il vero calcio rientra nell’ epica… la corsa, i salti, i tiri, i voli della palla secondo geometria o labile o…

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