Addio di Philip Roth alla scrittura?
Il punto interrogativo è d’obbligo, visto che l’annuncio è arrivato in sordina, quasi incidentalmente, da parte dello scrittore, durante un’intervista a una testata francese “minore”, “Les Inrocks”. E’ d’obbligo anche se lo ha confermato anche il direttore del «New Yorker» David Remnick, da sempre suo amico, e Lori Glazer, vicepresidente e portavoce del suo editore Houghton Mifflin. Possibile che, alla soglia degli 80 anni, Roth “ne abbia abbastanza” di scrivere, come sostiene David Remnick e altri suoi amici? Roth lo sarebbe andato ripetendo da due anni, addirittura. Secondo le sue parole, infatti, l’autore non sentirebbe più “il fanatismo della scrittura”, quel “calore di sangue” come direbbe la Nemirovsky, che lo ha spinto “ a trascurare quasi tutto il resto”. Ora “il calore” si è estinto. E la cosa suona come una chiusura del cerchio, visto che il suo ultimo Nemesis – opera dopo la quale preannuncia non ve ne sarà nessun altra – parla di un periodo vissuto durante la sua infanzia, quando a 11 anni fu spettatore di una terribile epidemia di polio che sconvolse l’America. Di sicuro, stando così le cose, il suo futuro silenzio ci darà l’occasione, se avremo nostalgia di lui, di andare a riprendere in mano i libri che più abbiamo amato (personalmente, Pastorale americana e Indignazione ) e magari leggere quelli che non avevamo mai aperto. Ma magari, perchè no, Roth alla soglia dei 90 potrebbe ricominciare. Si scrive perchè si ha qualcosa da dire d’altronde, o no? E poi sognamo per un attimo, cosa
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