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"L’importanza di essere colti", al giorno d’oggi!

“L’importanza di chiamarsi Ernesto” , o “L’importanza di essere Onesto”, in una traduzione che prova a riprendere il gioco di parole del titolo originale inglese della commedia di Oscar Wilde (costruita sull’assonanza che unisce l’aggettivo “earnest” – serio, affidabile ed il nome proprio “Ernest”). Mi ci ero imbattuta per caso durante uno di quei “pellegrinaggi mentali” che seguono spesso delle ricerche, che partono in una direzione per poi arrivare in tutt’altra, e mi è ritornato in mente stamani, sotto una forma ulteriormente modificata che assomigliava piuttosto ad un interrogativo: (Qual’è) L’importanza di essere colti (?). Perché in fondo resta ancora una delle grandi domande contemporanee, un topos che aderisce ad una necessità del pensiero, quella fondamentale consapevolezza del sapersi reservoir , nel senso di armonico “contenitore” di suggestioni culturali che si fondono e reinterpretano in una mescola nuova e interessantissima, che è ancora e più che mai un “fiore all’occhiello” per molti italiani. E se oltralpe c’è chi ne fa una vera e propria “questione nazionale”, interpellando fior di esperti per tamponare la vergogna seguita all’ironica affermazione di Frédéric Lefebvre , Segretario di Stato al Commercio, il cui libro preferito sarebbe “Zadig et Voltaire” (nota marca d’abbigliamento), per non parlare degli innumerevoli “strafalcioni” del presidente della repubblica francese, ciò non toglie che una riflessione unitaria sull’argomento che coinvolga anche “lo stivale”, sarebbe più che lecita. Immagine da: tagbolab.it Via | lexpress.fr “L’importanza di essere colti”, al giorno d’oggi!

L’Italia non è un paese per intellettuali: qualche spunto di riflessione da un’intervista di Eco al Guardian

Ieri il giornale inglese Guardian ha pubblicato un’intervista a Umberto Eco , uno degli italiani che ancora può vantare credito all’estero per la sua caratura intellettuale. Tra gli argomenti che l’Umbertone nazionale ha tirato fuori davanti ai giornalisti inglesi ce n’è uno che deve farci riflettere più degli altri e che riguarda la vita intellettuale del nostro paese. In particolare Eco afferma che l’Italia non è un paese intellettuale, che “sulla metropolitana di Tokio tutti leggono, mentre in Italia non lo fa nessuno” e che in fondo è proprio per questo che Berlusconi ha vinto facilmente la sua battaglia, riuscendo a trasformare il termine “intellettuale” in qualcosa di molto simile a un insulto. Per molti aspetti Eco non si sbaglia, anzi, coglie in pieno la mancanza che sfibra il nostro paese: il disinteresse del pubblico per la cultura. E’ vero, una volta in Italia c’erano personaggi del calibro di Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini, Primo Levi, Federico Zeri, Elio Vittorini, Leonardo Sciascia, Franco Fortini e altri centinaia, noti e meno noti. Ma c’era anche l’abitudine di dar loro ascolto, i loro …

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I Canti di Leopardi nella lista dei 100 notable books of 2011 del New York Times

Scorrendo la lista dei 100 libri più notevoli usciti in America nel 2011 , pubblicata un paio di giorni fa dal New York Times non possiamo certo stupirci nel trovare l’ultimo romanzo kennediano di Stephen King o l’attesissimo 1Q84 di Murakami, o ancora il Re Pallido, primo inedito postumo di David Foster Wallace (primo, ci scommettiamo, di una lunga serie). Quello di cui non possiamo non stupirci, in effetti, è un altro piccolo dettaglio. Al sesto posto della lista dei top libri del 2011 appare infatti un italiano. E non si tratta di Roberto Saviano, fresco fresco di apparizione a Zuccotti Park, e neppure di una ristampa di Italo Calvino, idolatrato negli States da quelle Lezioni Americane censurate dalla morte prematura, né di Baricco, di Eco o di Faletti. Si tratta di Leopardi. Si, avete capito bene: Giacomo Leopardi, il poeta e l’intellettuale più avanti che l’Italia abbia mai avuto e, nello stesso tempo, lo scrittore meno letto e più scolasticamente odiato da generazioni intere di italiani. Ad apparire nella toplist del NYT è una traduzione dei Canti, ritenuta talmente importante da meritare un cappello del genere: “With this English translation, Leopardi may at last become as important to American literature as Rilke or Baudelaire”. Noi, nel frattempo, Leopardi lo abbiamo dimenticato. Al meglio pensiamo a lui come allo sfigato gobbo che sbavava dietro a una contadina senza avere il coraggio di dirle quanto l’amava. Basterebbe rileggerlo, ripercorrere i suoi Canti, ma anche i suoi epistolari e i …

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Il romanzo è morto, evviva le serie TV!

Da qualche decennio viviamo in uno strano momento della storia della cultura, un periodo che sembra aver fretta di decretare la morte di quasi tutto. La poesia è morta, è morto il romanzo e insieme a lui il vero scrittore, è morta anche la critica, la teoria letteraria, sono morte le riviste, insomma, sembra che sia morta l’intera letteratura. Soffocati da tanto fervore apocalittico ci siamo scordati la grande regola del mondo, quella che dice che nulla si crea e nulla si distrugge e che oltre a descrivere il funzionamento energetico dell’universo, funziona discretamente anche con il mondo della finzione letteraria. Tutto cambia, dunque, si trasforma, ma non muore. A ricordarcelo ultimamente ci ha pensato Aldo Grasso con un pezzo molto interessante dedicato alla presunta morte del romanzo. Il giornalista del Corsera lancia una suggestione: il romanzo non è morto, è stato semplicemente sostituito da …

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