Terre di confine – prima parte

Terre di confine
interland milanese
“quadro di un’esposizione”:
“increAzioni progetto terra-acqua”
brugherio settembre ottobre 2000

(scritto in occasione della
mostra increAzioni)

da un lato la strada: movimento
veloce intermittente tra alberi,
convessità del terreno e percorsi
umani
?
periferia
banlieue
zona limitrofa
cintura
?
o semplicemente luogo
di transizione
di un’epoca che lascia i suoi
segni ovunque

Un tempo campagna abbandonata per concentrazioni urbane che oggi si ridilatano assoggettando sistematicamente ai propri schemi tutto ciò che incontrano. Qui però non si respira del tutto la desolazione periferica delle grandi metropoli postindustriali, più visibile in altri paesi o da certi percorsi trasversali ferroviari e autostradali (umani?), o ancora, più interna alle metropoli stesse “per contr/addizione” o distratte sovrapposizioni consecutive.

Si intravede cioè una specie di resistenza ad una trasformazione totalizzante, funzionale ma troppo spesso speculativa, omologante, che in italia ha trovato opposizione anche nell’abitudine a dover fare i conti quasi ovunque con realtà artistiche delle più disparate (o disperate”?”) epoche.

Quartiere dormitorio ma non proprio dunque, dove il decentramento come idea di contemporaneità contrapposta al centro: di controllo, di potere: economico, religioso, vorrebbe rincorrersi democratico oltre che speculativo (e/o ulteriore affermazione di un “potere del centro” a cui tutto dovrebbe sottomettersi, più gerarchico che
utilmente funzionale).

Luoghi che iniziano appena ad interagire con una propria identità con i vecchi progetti. Disegni di un passato remoto o prossimo che, realizzati o meno, risultano ascrivibili a realtà da troppo tempo condizionanti, riferimenti ormai fin troppo percorsi.

Crisi ed indizi di un superamento, come se ad un tratto ci si accorgesse che non esiste un aut aut applicabile a tutto ma che talvolta possono e devono convivere realtà differenti, parallele.

Qui l’opposizione ad una sistematizzazione completa è visibile non tanto nella struttura urbanistica che non viene messa in discussione alla radice ma tra le maglie di questo stesso sistema urbanistico non contraddetto. Nella presenza di spazi più ampi tra i vari stabili e aree commerciali, nella cura che, oltre ad essere maschera, puro decoro difensivo restituito ad una società aggressiva che lo esige, talvolta emerge tra i balconi nella semplicità di una
soluzione, nel particolare che infrange un “voler essere sempre altrove” della vecchia campagna svuotata e reinvasa permane ciò che si è sottratto alla storia nel ritmo assorto, quasi riflessivo, in un “senso proprio”, ancora percepibile, di un luogo, anche ma non del tutto, di “passaggio-parcheggio”.

Il ritmo assorto, si potrebbe dire saggio, di chi per troppe generazioni ha subito e deve ancora-e-sempre trovare un modo per sopravvivere caricandosi del peso di una realtà speculare a qualcosa che non sempre lo riguarda ma lo identifica.

Contraddizione da sempre giocata tra l’inconscia umiliazione dell’esiguità di un compenso troppo spesso misero e l’unicità di tempo e contenuto di una vita; tra un passato in cui alla totale disponibilità richiesta corrispondeva l’usa e getta di intere generazioni (date in pasto a guerre, povertà, ignoranza, ristrettezze).

Questi in ogni caso sono i margini ristretti che attestano questa resistenza: la volontà concreta, appena leggibile, tra mille messaggi contraddittori, di sottrarsi allo stress biologico a cui è sottoposto l’uomo contemporaneo (e non solo). Nei limiti cioè di un leggero scarto temporale al ritmo imposto o nei tentativi appena percepibili di sottrarsi all’appiattimento della pura obbedienza. Solo indizi ma centrali. Non è infatti l’esiguità di concretezza nel denunciare un problema a dover essere giudicata come irrilevante, quanto la necessità umana che questo rappresenta.

Soprattutto quando la portata di un’altra concretezza schiacciante, quella di un intero sistema, rende quasi illeggibile
ogni opposizione.

– continua –

Paola Zorzi

Quell’ultimo ponte di Cornelius Ryan

Cronaca degli eventi relativi all’operazione “Market-Garden” (Mercato dei Fiori).

L’invasione dei Paesi Bassi condotta dagli Alleati, a partire dal 17 Settembre 1944, con il più grande dispiegamento di truppe aviotrasportate della storia, raccontata da tutti i protagonisti attraverso una ricostruzione cronologica dei fatti che diventa via via sempre più avvincente.

Market-Garden è una storia nella storia: essa va inquadrata nel contesto degli scontri che gli Alleati sostennero immediatamente dopo lo sbarco in Normandia (dello stesso Autore “Il giorno più lungo” trasposto in un celebre film) e dello sfascio che colpì le armate tedesche in rotta verso i confini germanici.

Gli Alleati, a loro volta stremati da un inseguimento combattente lungo oltre 600 km e protrattosi per tre mesi, non approfittarono totalmente della possibilità di braccare le truppe tedesche fin dentro i confini del Reich, terminando la loro rincorsa con la conquista di Anversa e del suo porto.

Dei giorni che precedono l’avvio di Market-Garden vengono riportate tutte le voci e le testimonianze, dal Maresciallo Montgomery al Comandante in Capo Eisenhower per la parte Alleata e del Feldmaresciallo Von Runsted e dei Generali Model, Bittrich, Student ed Harzer per quella tedesca.

L’iniziativa aveva come obiettivo la conquista dei canali che, attraverso la campagna olandese, conducono oltre il Reno e quindi, dritto nel cuore economico della Germania: la Ruhr.

L’operazione si conclude però tragicamente ad Arnhem, dove i parà inglesi, dopo una resistenza di otto giorni contro i due previsti dal piano originale, devono soccombere alle truppe tedesche che si sono prodigate in una disperata difesa dei loro confini.

Gli storici concordano che in Normandia il numero dei caduti Alleati, nei giorni e lungo tutto il teatro operativo dello sbarco, si sia aggirato sulle 12.000 unità.

Durante l’operazione Market-Garden i caduti Alleati furono circa 18.000 sui 35.000 paracadutisti americani, inglesi e polacchi che presero parte alle operazioni belliche.

Le conseguenze più amare della sconfitta furono pagate, durante l’inverno successivo, dalla popolazione civile olandese che subì grandissime rappresaglie.

Il libro termina con una citazione del Principe Bernardo d’Olanda, all’epoca poco più che ventenne, che recita: “Il mio Paese non potrà pagarsi mai più il lusso di una vittoria di Montgomery”.

Dracula di Bram Stoker

Nel corso degli anni ho dedicato molto tempo alla lettura di romanzi, di novelle o anche solo di riviste ma mi mancava l’esperienza obbligata per chi come me ama leggere, ama il romanzo gotico, ama il mistero: mi mancava la lettura del Dracula di Bram Stoker.

Il protagonista del libro è Vlad Tepes l’Impalatore, principe Valacco che difendeva la fede cristiana dagli invasori turchi con metodi alquanto cruenti e singolari, in un’epoca di grandi battaglie come quella medioevale.

Il principe, dopo la morte della moglie, disperato rinnega la sue fede e diventa Dracula, il vampiro immortale. Secoli dopo, nella Londra di fine 800 conosce Mina Harker e inizia la caccia.

Bram Stoker decide di raccontare la storia del vampiro sotto forma di diari personali delle sue vittime e dei suoi cacciatori, sotto forma di ritagli di giornale o di lettere dalle quali viene etichettato, con occhi inquisitori, come il male più assoluto che si può sconfiggere solo con una profonda fede e un grande amore.

Un aspetto importante dell’opera è l’erotismo: il Conte è estremamente seducente e nel romanzo sia Lucy che Mina, le vittime del vampiro e coloro che con il loro amore permettono la caccia al vampiro, non riescono a resistere all’influsso del Conte. Dracula è estremamente sexy: egli succhia il sangue delle sue vittime attraverso il collo, ha un profondo contatto fisico con esse, il suo abbraccio così enfatizzato e mortale ha un che di passionale e morboso.

Dracula è certamente un romanzo ben scritto, un romanzo uscito fuori dalla mente di un geniale scrittore che ha avuto come pregio principale quello di riuscire a dar voce alle paure di ogni uomo. Quello che rende originale il Dracula di Bram Stoker è proprio questo: ogni uomo ha paura, paura soprattutto di quello che non conosce, del diverso, del soprannaturale, paura anche di tutto ciò che viene etichettato come immorale da chi la società la vive in modo estremo e perbenista ma che su ogni uomo fa presa esercitando un’inconscia “seduzione”, proprio come Dracula faceva con le sue vittime. Paure non propinabili ad una società che fa di tutto per essere positiva e ottimista.

Pasquale Errico

Marcovaldo di Italo Calvino

Il primo fu Marcovaldo. Era il 1984 e io frequentavo la prima media. In quegli anni scossi dalla tragedia di Seveso, nei prati le siringhe spuntavano come fiori e i torrenti di tanto in tanto si coloravano di rosso. Regnavano le discariche a cielo aperto e qualcuno trovava normale buttare giù per una riva una lavatrice, un frigo, calcinacci, water, ecc. Nessuno faceva jogging per strada.

Fu in quel clima che lessi Marcovaldo e quel libro si fissò per sempre nella mia mente e influenzò il mio modo di essere. Marcovaldo è un personaggio bellissimo, tragi-comico e malinconico che può sedere tranquillamente con Totò e Charlot. Un Don Chisciotte per cui i mulini a vento sono il cemento e l’asfalto che mangiano gli alberi.

Marcovaldo, Italo Calvino, 1963.

Montag