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A portata di mano, di Tilman Rammstedt

(…) fra quattro ore devo aver trovato la risposta e deve essere una risposta convincente, una risposta che non richieda ulteriori domande, per cui fai solo un breve cenno con il capo e tutto il resto è superfluo ma purtroppo non ho la più pallida idea di come possa essere questa risposta. (…) Inizia così, davanti al mare, A portata di mano , di Tilman Rammstedt, berlinese, già vincitore del premio Bachmann, che ci snocciola davanti agli occhi i dilemmi, i silenzi, gli autogrill e le divertenti inconcludenze di Konrad e Felix, che dopo tre anni di silenzio reciproco, si mettono di nuovo in contatto quando arriva loro la partecipazione di nozze di Katharina. Perchè Katharina non può averlo fatto così, all’improvviso, senza avvertire. Decidere di sposarsi senza “rispettare l’ordine”, perchè “Felix doveva essere il primo, Katharina la seconda, e Konrad l’ultimo, dopo un bel po’”, circa quarant’anni dopo Felix e Katharina. Ma chi l’avrebbe immaginato che Konrad e Felix avrebbero preso così sul serio una conversazione su un prato dopo il ventiseiesimo compleanno di Konrad. Di certo non Katharina, che per aver avuto la malaugurata buona educazione di invitarli alle nozze si ritrova inseguita in incognito dentro un supermarket. L’unica colpa poi, quando li avvista, è quella di offrirgli uno spuntino in casa sua, per ritrovarsi poi con tre sonniferi in gola, senza poter opporre resistenza quando sdraiata sul lato posteriore della sua stessa macchina – solo presa in prestito dai due, per carità – si trova a viaggiare inconsapevole verso la Francia (decisione sofferta di Felix e Conrad dopo aver scartato l’Ucraina). E insomma tutto il piacere della lettura di questo romanzo sta nel fatto che è una goduria seguire le peregrinazioni oltre che fisiche, mentali, di questi due taciturni protagonisti cervellotici e un po’ naif che sembrano sempre sapere cosa si deve fare senza però riuscire a spiegarsi il perchè, un perchè che affonda in un grumo di ricordi, emozioni, frasi, ormai indistinguibili nel loro presente. …

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A portata di mano, di Tilman Rammstedt

Solo l’amore resta, di Chiara Amirante

Allora, inizio col dire che leggendo questo libro, Solo l’amore resta , ho pianto pesantemente una volta (a pagina 94) e sono sbottata a ridere molte più volte. Perchè Chiara Amirante (in breve, la fondatrice della comunità Nuovi Orizzonti ) oltre ad ammirarla, non può che rimanerti simpatica, essendo proprio – come dice lei stessa – “una matta”. E’ una che per la sua grande fede durante l’università, facendo preoccupare amici e genitori, decide di andare di notte in strada, o alle mense dei poveri, a incontrare drogati, senzatetto e prostitute. Chiara, come una matta, non sa cosa andrà a dire a questa gente. Però intanto inizia con un “Come va?”. Ma poi – sempre peggio – dopo un po’ sente di voler andare (sempre di notte, chiaramente) nei sottopassaggi delle stazioni di Roma Termini, dove allora non c’erano negozi e belle vetrine come oggi. “Appena questo volontario mi ha salutato per andare a offire un panino a un barbone nella piazza della stazione Termini, io ne ho approfittato per andare a vedere cosa ci fosse “al piano di sotto”. Subito ho pensato: “Se scendo qualche altro scalino non potrò uscire incolume da lì”. Perchè la prima scena che ho visto era di alcuni ragazzi che si stavano prendendo a bottigliate, tutti sanguinanti e ubriachi, e un paio di loro avevano già tirato fuori i coltelli. Da un lato c’era un ragazzo steso a terra, immobile, che non si capiva se fosse morto oppure se avesse un collasso da overdose. E lì mi sono detta: “Quel ragazzo forse sta morendo e allora devo andare a vedere”. Una matta, insomma. Ma leggendo cosa accade dopo, secondo me, è impossibile non piangere. E insomma poi Chiara, con questa allegra compagnia di (ex) drogati, prostitute e senzatetto recuperati dalla strada, che diventerrano i suoi migliori amici, decide di cercare una casa per andare ad abitare insieme (non vi dico come reagiscono di volta in volta, i vicini di casa…

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Solo l’amore resta, di Chiara Amirante

Fuga dal paradiso, di Diana Abu-Jaber

La prima volta che Avis si era inginocchiata su una sedia e aveva mescolato le uova nella farina per fare una torta alla vaniglia aveva avuto la percezione del modo in cui ordini superiori di senso avvolgono il caos dell’esistenza. Le famiglie felici si assomigliano tutte, scriveva Tolstoj in Anna Karenina, e quelle infelici lo sono ognuna a modo suo, come accade alla famiglia dei Muir, protagonista del corposo romanzo di Diana Abu-Jaber, vincitrice dell’American Book Award, Fuga dal paradiso . Un romanzo che ci mette sotto gli occhi le immagini di fragile perfezione dei ricordi di ciascuno dei Muir, appunto, una famiglia spezzata che vive a Miami. C’è Avis innanzitutto, la madre, che ha una pasticceria artigianale esclusiva annessa a casa sua, diventata per lei negli anni l’oasi dai suoi dolori, proprio come quando da bambina trovava rifugio davanti a forni e mestoli, lontana dalle disattenzioni di una madre intellettuale immersa in se stessa. La cucina infatti è il suo rifugio da quando sua figlia Felice (ironia del nome) è andata via di casa ancora minorenne dandosi alla vita della strada, fra tossicodipendenti e giovani vagabondi. Sono passati infatti i tempi in cui “aveva ipotizzato che le figlie femmine appartenessero alle madri” o semplicemente “aveva immaginato di fare dolci insieme a una figlia. Di mostrarle come si rompe un uovo con una mano sola, tra le dita, come si distillano essenze dalle bacche, il modo giusto per allacciare un grembiule”. Sono passati quei tempi perchè Felice, che sta per compiere la maggiore età proprio mentre in città sta per abbattersi il terribile uragano Katrina, già da anni ha scelto una vita diversa, la peggiore: la strada. Per la disperazione di Avis e del marito, Brian. Una disperazione che però per Brian, nel tempo è stata soppiantata dalla “tentazione della resa”. Cosa. Cosa avrebbero dovuto fare …

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Fuga dal paradiso, di Diana Abu-Jaber

Niente lacrime per la signorina Olga, di Elda Lanza

“Dove state andando?” chiese il maresciallo. “Hanno ammazzato una vecchia. Andiamo noi”. Alla signorina Olga non sarebbe piaciuta quell’espressione. Nessuno si era mai permesso di definirla una vecchia, anche se aveva ottantadue anni. Non so voi ma personalmente sono due i periodi dell’anno in cui amo tuffarmi nella lettura dei gialli: estate inoltrata e il periodo tardo autunnale, quando nell’aria c’è già voglia di Natale. Non mi sono ancora data una spiegazione soddisfacente di questa preferenza, fatto sta che anche quest’anno non ho resistito e ho già iniziato a crogiolarmi nella lettura di alcuni gialletti molto sfiziosi. Il primo di questi di cui vi do conto è il debutto per Salani della prima “signorina buonasera” della tv italiana, Elda Lanza, che con Niente lacrime per la signorina Olga mi ha fatto buona compagnia, come dicevo. E non fatevi impressionare dal fatto che…

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Niente lacrime per la signorina Olga, di Elda Lanza